A noi la Sardegna ha sempre dato l’idea di essere una terra di forti contrasti.
In pochissimi chilometri si passa dalla dolcezza delle sue spiagge turchesi all’asprezza del suo interno.
Dalla delicata sabbia rosa di Tavolara ai macigni della Barbagia.
Una terra da trattare con delicatezza, la Sardegna. A chi la vuole sfiorare si mostra nel suo lato più accattivante, stupefacente e forse un po’ frivolo. Ma chi la vuole conoscere deve lasciarsi alle spalle il mare ed inoltrarsi nell’entroterra.

Bastano poche curve dalle mille calette del Golfo di Orosei per cambiare scenario. Montagne aspre, rocce durissime e tronchi ruvidi ed attorcigliati degli alberi di sughero.

Eppure lì, dove non ci sono più i turisti, c’è la Sardegna più autentica: quella delle persone un po’ rudi e chiuse, ma che quando ti mostri curioso delle loro tradizioni, illuminano lo sguardo e aprono il cuore.

Siamo curiosi, quando arriviamo ad Orgosolo. Un po’ come succede sempre quando arrivi in un posto noto solo per la cronaca, e nemmeno troppo felice: cerchi qualcosa, non sai bene cosa, ma qualcosa che sia diverso da quello che già sai. Anche perché spesso quello che sai, è troppo poco o, peggio, è sbagliato.

Orgosolo è famosa per i murales. Oltre 150, i primi dei quali risalgono al 1969 quando un gruppo di anarchici decise di colorare una casa. Poi negli anni 70 ci si misero artisti, professori e studenti, sempre sull’onda della protesta o dell’impegno sociale.

I murales di Orgosolo parlano infatti di guerra, di resistenza, di forte denuncia sociale, di operai e di ribellione, di lavoro nei campi e di fatica.

Sono belli? Sono colorati? Sono allegri? Niente di tutto questo!
O meglio: si, lo sono, ma sono un messaggio sociale fortissimo, lanciato per di più da un paese che ha fatto i conti con un passato turbolento e abbandonato dietro le spalle.

Ci raccontano che i murales sono fatti con vernice ad acqua: facilmente deperibile. Se la comunità sente la necessità di mantenere vivo il messaggio rivernicia il murales. Se non serve più, lo lascia definitivamente morire, abbandonandone il ricordo. Come le lotte sociali: finché serve. Poi basta.

Come la Sardegna vera: se la vuoi conoscere, è lì. Sennò vai al mare, ignorala e poi vattene a casa. Lei è silenziosa e discreta e, di certo, non ti viene a cercare.
Un po’ attraente e un po’ paurosa, come le sue maschere più celebri: i mamuthones.

Nella vicina Mamoiada queste figure mostruose, precedute dagli issohadores, sfilano in processione alla fine dell’inverno, annunciate dal suono possente, ritmato e stonato di centinaia di pesantissimi campanacci sistemati sulle loro schiene.

Sono ricoperti da un mantello di pelliccia e, secondo la tradizione popolare, cacciano dalla terra e dai pascoli gli spiriti negativi. Un rito propiziatorio per la fine dell’inverno e per il nuovo anno, quindi. E perché la terra e gli animali diano il sostentamento e la giusta ricompensa per il duro lavoro.

E’ una Sardegna diversa: quella di un patrimonio storico culturale ancora troppo poco noto ma che merita di essere ammirato, conosciuto ed apprezzato.

Come il Museo del Canto a Tenores di Bitti, dove sarete accompagnati dalla musica polifonica di bassu, contra, mesu oche e oche. Radici antichissime, il canto a tenores, che si perdono negli anni in cui i pastori accudivano i greggi in solitaria, per settimane.

Oppure come il Santuario di Nostra Signora dell’Annunziata: circondato da un insieme di casette candide, risalente al XVIII secolo ed abitato solo nei tre giorni della festività religiosa.

O come gli straordinari siti nuragici tutti da scoprire. Tra i tanti, qui vi proponiamo quello di Romanzesu.

Una Sardegna quindi lontana anni luce dalle spiagge e dall’immagine che tutti abbiamo bene in mente; un territorio dalle tradizioni antichissime che è pronto a farsi scoprire, da chi ha voglia di alzarsi dalla spiaggia e lasciarsi affascinare…

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