E’ successo di nuovo.
Alcuni luoghi hanno il potere di toglierti completamente la parola.
Nulla da dire perchè i pensieri sembrano salire dallo stomaco e faticano a trovare un ordine logico. Luoghi dove le parole si strozzano in gola, ammucchiate alla rinfusa senza trovare una sequenza sensata.
Luoghi dove sospiri. Ti fermi in silenzio e sospiri, sentendoti quasi soffocato dalle tue stesse parole non dette.

E’ successo a Dachau, qualche anno fa.
E’ successo a Ground Zero, sedici mesi dopo il crollo.
E’ successo a Sarajevo, davanti al monumento ai bambini.
E’ successo oggi, al Binario 21.

Il Binario 21 è nascosto come tutti gli atti disgustosi di cui l’uomo si è reso colpevole. Nascosto nella pancia fredda e oggi silenziosa della stazione contrale di Milano.
Il Binario 21 divenne, da 30 gennaio 1944, un posto da dove si andava a morire. Senza saperlo.

Da lì, nascosti per non farsi vedere, arrivavano i camion pieni di milanesi ebrei.
I camion scendevano a livello dei binari, dove le persone venivano caricate a forza sui carri bestiame.
Sigillati, i vagoni uscivano su un enorme montacarichi e da lì, sollevati sulla ferrovia; la stessa che anche noi oggi percorriamo per tornare a casa.

Destinazione ignota, per chi saliva a forza.
Auschwitz. 15 volte. 15 convogli.
774 milanesi.

Al Binario 21 si entra dai cancelli che i camion oltrepassavano, carichi di cittadini strappati alle loro vite.
Ci accoglie un muro spezzato, con una grande scritta “Indifferenza”: è l’inizio del percorso di visita ma, probabilmente è anche l’inizio di ogni grande baratro dell’Umanità.

Ci sono i montacarichi neri dei camion che dovevano scendere al livello del binario nascosto; c’è un lungo percorso tra i pilastri della stazione, tra foto, video e drammatici racconti dei superstiti.
I pannelli illustrati raccontano la storia delle deportazioni e i metodi “scientifici” utilizzati dai nazisti. Conosciamo la storia, ci ricordiamo i metodi e conosciamo gli esiti, ma leggerli di nuovo, ha un effetto devastante. Di quelli che tolgono le parole. Ogni volta.

Poi, improvvisamente, si fa buio. Buio e silenzio. Rotto solo dallo sferragliare dei treni che passano sopra alla testa.
Buio e silenzio. Due binari. Su uno, quattro vagoni. Ancora un treno passa sulle nostre teste, forse carico di passeggeri ignari di cosa ci sia qualche metro sotto terra. Ora, come allora, ignari di cosa ci sia stato.

Sotto terra perché certe aberrazioni dell’essere umano, non amano la luce del sole.
Entriamo in un vagone. Sono carri bestiame che in origine contenevano 8 cavalli. Poi, fino a 112 persone.
Persone.

In fondo al Binario una luce accecante contrasta con quel buio. C’è il sole, su Milano.
La luce in fondo al tunnel, da sempre metafora di libertà, al Binario 21 è stata resa sinonimo di morte. Anzi: di fine della “vita”. Perversa negazione del concetto stesso di esistenza. Di libertà di esistere.

Mentre su un tabellone scorrono i nomi di tutti i deportati da quel Binario, si fa ancor più buio e ancor più silenzio al lato opposto del binario; entriamo nel “pensatoio”: un’area isolata e silenziosa, per riflettere. Un passaggio che dovremmo fare tutti…

Su un tabellone scorrono i nomi.
Settecentosettantaquattro nomi.
Alcuni sono scritti in giallo: sono i nomi dei sopravvissuti.
Li contiamo.
Ventidue.

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